La tragica morte di Giuseppe Fava
5 gennaio 1984, Giuseppe Fava, giornalista e scrittore di frontiera – «Passione di Michele» è il suo romanzo più famoso – è ancora sull’auto con la quale si stava recando a prendere il nipote quando, da una calibro 7,65, partono i colpi di pistola che non gli lasciano scampo e come talora è accaduto nella nostra terra, scatta immediatamente il depistaggio. Il movente del delitto viene infatti, nell’immediato, attribuito a faccende di donne, tenendo conto del fatto che l’arma usata non è quella di cui si serve tradizionalmente la malavita e, ancora, del fatto che la vittima aveva fama d’essere “un fimminaro” cioè uno che correva dietro le gonnelle. Il depistaggio, peraltro quasi subito sventato, diviene motivo, o scusa?, per non rendere l’omaggio dovuto a quella che, invece, era una vittima della mafia. Furono infatti molto pochi i presenti alla cerimonia funebre e, se si fa eccezione di Santi Nicita, presidente della Regione del tempo, ben poche le autorità.
La lotta contro la mafia
A smontare la narrazione farlocca sull’omicidio ci pensano alcuni bravi investigatori, a cominciare da Emanuele De Francesco, in quel tempo alto commissario per la lotta alla mafia, e al questore Agostino Conigliaro.
D’altra parte, non ci voleva molto a capire che quell’orribile delitto non poteva che avere una precisa matrice mafiosa, bastava infatti soffermarsi sulla frenetica attività di denunzia che lo scrittore aveva già da tempo sviluppato – un’attività di denuncia che, come ricordava il pentito Antonino Calderone, aveva perfino urtato il terribile Luciano Liggio – per capire che si fosse di fronte ad un classico episodio di vendetta mafiosa.
L’attivismo di Pippo Fava
Pippo Fava era tuttavia di quelli che, si direbbe, si spezzano ma non si piegano, le sue battaglie non potevano finire così ingloriosamente. Da lì, fra grandi difficoltà, soprattutto economiche, parte l’ultima grande avventura di Pippo Fava, si tratta del mensile I Siciliani, la cui pubblicazione inizia nel novembre del 1982 con una redazione fatta di giovani carichi di positive motivazioni fra i quali anche il figlio Claudio, che sarebbe divenuto coscienza critica di una Sicilia migliore e libera dalle mafie.
I Siciliani si qualifica subito come strumento di analisi e di denuncia delle collusioni e del sistema mafioso, un vero organo per quello che oggi si chiama giornalismo d’inchiesta, che prende di mira soprattutto un segmento allora importante della società e dell’imprenditoria catanese, si trattava di quelli che lui definiva i cosiddetti «Quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa».
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